giovedì 29 settembre 2011

FOLLIA - Patrick McGrath

 



Amo la donna perduta di questa storia, una fragile creatura vittima della vita. Stella è il suo nome, e splende infatti, dall’inizio della sua storia in cui si muove con elegante e disinvolta sicurezza, per tutto il corso delle sue tormentate vicende e fino alla fine, distrutta ma mai sconfitta. Tutto si svolge dentro e intorno ad un ospedale psichiatrico. Ma c’è molto altro per giustificare il titolo.

Stella è la moglie di Max, un affermato psichiatra che aspira alla direzione dell’ospedale. Ma proprio Max, e anche Peter il suo collega e amico, e (unico) amico anche di Stella, dimostrano come anche la migliore preparazione professionale nulla possa contro le proprie mistificazioni interiori. L’insediamento nella grande casa all’interno del complesso ospedaliero è già foriero di tragici risvolti. Il giardino e la serra, il loro antico splendore ottenebrato da anni di abbandono sembrano il giusto riflesso della trascuratezza in cui versa intimamente e fisicamente questa donna, silenziosa spettatrice della messinscena della sua e dell’altrui vita. Edgar Stark, il paziente uxoricida in semilibertà che viene chiamato a restaurare la serra e a rinverdire quel giardino, non può che essere lui, artista, forte, passionale, pericoloso, incontrollabile, il tramite attraverso cui Stella ricomincia a credere che lei stessa può rinascere ancora, rinverdire insieme all’orto che diventa il teatro principale della sua trasgressione, timida e timorosa prima, poi sempre più sfrontata, assoluta, man mano che l’innamoramento per quell’uomo diventa passione devastante e incontenibile, e infine ossessione e grido disperato della propria rabbia contro il mondo, sempre più lontano ed estraneo. Se può sembrare impossibile poter giungere a livelli di scollamento dalla realtà così profondi, seguendo il filo di questo racconto tutto invece è logicamente conseguente, e se non prevedibile in tutti i suoi risvolti, paurosamente plausibile. Il fatto è che camminiamo sul filo di un equilibrio così fragile. E certamente nessuno è veramente al sicuro da sé stesso. In questo incessante gioco di trasposizioni che noi stessi quotidianamente operiamo, fra luci ed ombre, menzogne e ipocrisie, trascurando di vivere la verità, la possibilità di vedere veramente gli altri e sé stessi è sempre tragicamente offuscata, se non in rari sprazzi di effimero predominio sulla realtà. Con quanta fatica Edgar riesce a lavorare la sua scultura. Lotta ogni giorno contro gli schermi che la sua mente mette davanti a Stella nascondendola ai suoi occhi, ogni giorno di più, ma lui, il pazzo, è alla fine l’unico che riesce ad abbattere quelle barriere e a cogliere infine veramente l’essenza di quella donna, e a ritrarla in quella testa fragile e sottile. Trascorriamo la maggior parte del nostro tempo a tentare di trovare una strada percorribile tra i paletti che noi stessi innalziamo a difesa degli equilibri che riusciamo faticosamente a costruire negli anni. Paletti per difendere gli affetti di genitori sorelle e fratelli, altri per le amicizie, altri ancora per le apparenze, e la rispettabilità, paletti a sostenere la carriera o quel simulacro di esistenza lavorativa che riusciamo ad avere, paletti a difesa della nuova famiglia, paletti a difesa dei figli. In questa rete di barriere non è facile riuscire a respirare. Ogni giorno arriva meno ossigeno, c’è sempre meno spazio per potersi muovere, per quello che siamo e che vogliamo, il mondo reale diventa ostile, gli altri non ci vedono più, nè noi possiamo più vedere loro. Ogni comportamento diventa un ruolo a cui ci imponiamo di restare fedeli senza tregua, ogni volto svuotato del suo contenuto, un debole sostegno su cui proiettiamo l’immagine di coloro che amiamo o odiamo, confondendoci continuamente fra opposti sentimenti. Credo che sia in queste condizioni, quando siamo troppo occupati a tenere su i paletti e non troviamo più un modo per alimentare noi stessi e le nostre necessità, per gridarci al mondo, quando non c’è più spazio per costruire qualcosa e il futuro collassa nel presente, che questo, privo di sbocco, diventa sempre più intollerabile. E così avviene che la depressione, dopo essere rimasta lì silenziosa, in agguato ad osservarci franare, inizia a lusingarci con le sue carezze melliflue, offrendoci un rifugio sicuro dentro noi stessi, barricati nell’unico luogo in cui possiamo essere davvero quello che siamo, contro tutto il mondo fuori. Finalmente liberi. Sempre più in fondo, sempre più lontani, sempre più liberi. Follia. La storia di questa e di ogni altra follia è tanto disarmante nella semplicità dei suoi meccanismi, quanto spaventosa e ad un passo da noi nella sua plausibile concatenazione di eventi. Eppure io stessa mi vedo lì a giudicare severamente, a dissociarmi seccamente da tante follie. Credo sia questo l’aspetto più orribile, triste e insolubile della pazzia. In ogni momento possiamo essere da una parte o dall’altra del baratro. E in qualunque dei due casi, superato il limite, non ci sarà mai più possibile vedere e comprendere davvero chi è dalla parte opposta.
 
                                      Come il fiume che scorre

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